Fortunato Bellonzi - Catalogo della mostra di Istanbul, Novembre 1983

Non conosco un ceramista altrettanto sapiente nel mestiere, che non tradisce perchè non snatura mai in un surrogato della pittura, ma lo considera semplicemente un “dipingere” con altro materiale, richiesto da un modo e mondo di visione che necessita proprio di quegli strumenti di lavoro e di quel preciso impegno artigiano sentito appunto come insostituibile perfezione tecnica ai fini espressivi.

Un così garbato e fine narratore di giardini, di paesi e di interni dove le figurine umane hanno poca o nessuna parte (se vi compaiono, minuscole, sono già assimilate per nascita all’ambiente; e si scoprono un istante dopo entro le varie movenze prospettiche, per piani ribaltati, dove le cose tutte si allineano più che realmente allontanarsi).

Domina dappertutto, nelle ceramiche del Ceccaroni, una fioritura composita di verzure e di strutture fiabesche sotto cieli di nitido smalto blu traversati a volte da cirri bianchi esilissimi, ma anche sostituiti da galassie festive di mille cerchiolini e punti lattescenti a guisa di un fuoco d’artificio espanso, che cada lento disegnando archi di cerchio.

L’impressione che promana da queste ceramiche è di sogno ad occhi aperti, di immagini di “paradisi deliziani”, di un “giardino” (quale in greco indica la parola “paradiso”) sospirato e cercato nelle origini stesse dell’innocenza dell’uomo: l’Eden come a suo modo lo raffigurò un pittore quattrocentesco in un Giudizio Universale di Loreto Aputrino, dove le anime bambine, piccole e nude, si vedono in atto di salire sugli alberi colmi di frutti splendidi e gustarne.

Il silenzio è la musica di queste immagini prestigiose del Ceccaroni, alle quali volendo trovare una referenza culturale spettano, come fonti probabili, le raffinatezze del più coltivato “gotico cortese”: i giardini d’amore, cantati dai poeti e illustrati dagli artisti, specie nelle miniature, fin dentro il XV° secolo, e consegnati con intatta freschezza all’estrema poesia cavalleresca dell’Ariosto e del Tasso: i giardini incantati di Alcina e di Armida, il cui inganno è però senza male.

Su un tal mondo di stupori e di magie, dove il mito frequenta le strade avventurose di un Orlando e di un Rinaldo, e scatta nella sorpresa (aspettata) sospendendo le affannose cacce dell’amore e della guerra, si apre all’occhio del Ceccaroni novellatore: si schiude il sipario del suo teatro, i cui veli, sollevati sui tronchi (come in una delle ceramiche più affascinanti) ci consentono di ficcare lo sguardo sull’area vasta e varia di un’Arcadia nuova, che ha per unico evento il nostro bisogno di recuperare la misura dell’esistenza e la speranza di illusioni ulteriori nelle quali si inveri il nostro dubitoso, aspro cammino.